Un po’ di tempo fa ho partecipato a una serata evento in cui si parlava d’arte, artisti, opere d’arte, sensazioni ed emozioni.
Invitata da una “recente amica”, ma che già considero “Cara Amica”, di cui non riporto il nome, allo stesso modo che non riporterò il nome dell’evento e i nomi delle persone che sono intervenute riuscendo a suscitare in me “sensazioni” che si sono insinuate nei miei pensieri, tanto da indurmi a scrivere.
Volendo tacere nomi e indicazioni, non per codardia, bensì per rispetto della privacy di tutti, vengo subito al dunque, al motivo per cui sono qui a scrivere: ho vissuto una serata (durata, per me, poco più di un’ora, oltre non ho retto) in cui completamente basita sono stata ad ascoltare considerazioni e indicazioni di vita guarnite da una involontaria arroganza, citazioni e concetti filosofici (triti e ritriti) come fossero appena stati partoriti dagli stessi relatori, senza la possibilità di un confronto verbale di idee e opinioni.
Premetto che tutto quando di seguito leggerete sono le mie idee e le mie considerazioni, non intendo insegnare nulla, non chiedo di essere approvata, voglio semplicemente dire qui quello che penso, perché in quella serata avrei avuto molto da dire, se mi fosse stato concesso.
Qua e là un po’ di ironia serve a non annoiare.
Premetto pure, a chi si riconosce leggendo, che quanto scrivo non intende essere denigrante, sono le impressioni che ho percepito, e vorrei fossero interpretate come base per un eventuale confronto, se gradito, in quanto , per me, l’opportunità di replica è sempre d’obbligo.
Aggiungo, da professionista della comunicazione, d’aver applicato le mie conoscenze e capacità di analisi in tutto questo, e consiglio di valutare la non remota possibilità che simili considerazioni siano sorte nella mente anche di altri.
Inizio, ma senza rispettare l’ordine cronologico in cui si sono alternati gli oratori.
Una “Signora Artista” ha fatto un bellissimo intervento, ha parlato delle sue opere, ha raccontato un po’ della sua storia, ha espresso le sue idee, che rispetto, però il tutto mi arrivava come un canto diseguale in cui alcune note stonavo terribilmente.
Iniziamo dalla più banale: l’età.
Sono vecchia, ma amo le mie rughe. (sintetizzo così).
Bellissimo, ma cosa vuol dire?
È importante diventare vecchi, significa che siamo ancora vivi, che giorno dopo giorno abbiamo vissuto, gli anni sono passati, abbiamo avuto modo di vedere tutto quello che per altri rimarrà per sempre irraggiungibile futuro, e mi riferisco a chi è rimasto giovane perché in giovane età si è ritrovato all’interno di una tomba, perché solo così si può rimanere giovani per sempre.
La nota stonata stava nell’incompletezza della frase; troncata, fatta solo di quello che fa piacere dire; cosa che si può fare tra pochi amici che ti conoscono, ma sconsigliato quando ci si siede volontariamente davanti a una assemblea e ci si presenta, si parla, si esterna, senza che chi ascolta abbia la possibilità di replica immediata.
La frase completa, concreta e decisa, poteva essere questa:
“Sono vecchia la mia età è …… . Amo le mie rughe, ma mi tingo i capelli.”
Personalmente, amo l’età che lievita e le trasformazioni del corpo e dell’anima, alcune di più altre meno, per scelta i miei capelli non sono tinti, e se parlo della mia età la dico ora e la dirò per tutti gli anni che potrò.
Dunque, ascoltare questa gentile e simpatica “Signora Artista” dire queste parole, da un pulpito, con un non troppo sottile velo di vanità, mascherato da un sorriso di fallace intima confidenza, mi ha lasciato perplessa.
È arrivata a pungermi l’anima parlando di un frutto, anzi quello che si può definire “il frutto” ossia la mela. Non mi dilungo sul motivo per cui lo definisco “il frutto”, è facilmente intuibile: Adamo ed Eva, Platone e la mezza mela, il frutto che vanta 7.000 varietà e così via.
Arrivati al torsolo non rimane più nulla. (proseguo col sintetizzare)
Vogliamo paragonare la vita alla mela?
Arrivati al torsolo significa che l’abbiamo vissuta tutta e dobbiamo esserne felici, ringraziare chi preferiamo e vantarci di avercela fatta, e magari soffermarci, anche solo un poco, ma non è obbligatorio, a pensare a chi l’ha solo colta.
Vogliamo rimanere con i piedi per terra e vederla solo come il mero frutto che è?
Arrivati al torsolo troviamo i semi, li piantiamo, nascerà un albero e cresceranno tante mele.
Oppure: la mela è la nostra arte, professione o banale lavoro?
Arrivati al torsolo, se non ci trasmette più nulla si butta e si passa a un altro frutto, dunque a un periodo nuovo, tutto da scegliere, da costruire e da vivere.
Ascoltavo e mi chiedevo come può un artista parlare di emozioni, sensazioni e creazioni, dimenticando di apprezzare la vita (o per lo meno, dimenticando di precisarlo), senza riuscire a individuare la “fertilità” che è insita in tutte le cose, compresa la nostra mente, senza riuscire a vedere oltre all’oggetto, ma rimanendo legato a luoghi comuni: chirurgia estetica (argomento affrontato anche da altro oratore), rughe, cose che finiscono senza lasciare nulla.
La fine coincide sempre con un inizio, e a dirlo non sono io, tante voci del passato hanno disquisito in merito.
Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, ha detto De Lavoisier, e in questo contesto mi permetto di aggiungere: anche l’intangibile, inteso come energia dell’anima, esperienze vissute … torsoli di mela.
Necessario essere in grado di fermarsi e pensare, necessario avere la capacità di introspezione, l’obiettività di individuare il bene e il male fuori e dentro di sé, di valutare le proprie capacità e carenze, indispensabile l’onestà nei confronti di se stessi anche nel riconoscere quello che non si è in grado di fare. La consapevolezza dei propri limiti non può che portare a essere più forti e meglio preparati.
Se non si ha nulla di tutto questo non è poi così grave, non c’è nulla di male nel non saper fare qualcosa, nel non saper “vedere oltre”; utile è che un artista lo sappia fare, un artista che vuole, o vorrebbe, racchiudere emozioni e sensazioni in un’opera che potrebbe diventare opera d’arte.
Anche questo è un piccolo dettaglio (così lo definisco con ironia) che non ho sentito menzionare, ossia: non necessariamente un’opera di un artista diventerà un’opera d’arte, non necessariamente diventerà quella “cosa” in cui tutti sapranno cogliere l’essenza del messaggio che solo il vero talento può imprimere a livello quasi molecolare per trasmettere in maniera simbiotica, attraverso l’etere, attraverso lo spazio che si frappone tra l’occhio e l’oggetto, il fascino e lo stile del “bello”.
Ma, andiamo oltre.
Una frase che chi mi conosce bene sa che è mia da anni è questa:
“Ho un dono: quando finisco sul fondo, se non rimbalzo, trovo sempre la forza per risalire.”
Dono perché non ritengo sia un pregio, non è una caratteristica “coltivata” con impegno e fatica, ma è un lato di me che il fato, il cielo, la natura o chi altro sia mi ha regalato e quando serve me lo ritrovo a mio favore senza aver fatto nulla.
Ma, sicuramente non sono la sola, di certo altre persone hanno detto e dicono, magari proprio in questo momento, le stesse mie parole, se non uguali simili.
Eppure, in quella serata anche questo concetto è stato espresso come fosse quasi una rivelazione che solo gli artisti seduti dietro a quel tavolo/cattedra sono stati in grado di cogliere, e con grande generosità esternavano ai presenti seduti davanti al tavolo/cattedra.
Una delle mie caustiche battute potrebbe essere: “ed eccoci arrivati al nobel per l’acqua calda”.
È ora la volta del “Ragazzo Artista”, giovane, minuto, molto curato nell’aspetto, sicuramente attento alle mode del momento, come è giusto sia per un ragazzo della sua età.
Ha espresso idee e interpretazioni molto interessanti, ha parlato di fare dell’arte in evoluzione, quasi scomponibile e ricomponibile, e questo è stato il lato positivo.
Ha parlato di case “cubo” tutte uguali, tutte anonime, ha clamorosamente scordato la bio-architettura, la nuova edilizia dei prefabbricati con le sue soluzioni modulari che dà svariate possibilità di personalizzazione. Anche qui l’incompletezza, l’argomento è stato accennato, non affrontato o per lo meno sviscerato per sommi capi. Bastavano i titoli, non serviva sviluppare i temi.
Però, mi piaceva starlo ad ascoltare, mi ha fatto una tenerezza infinita quando ha parlato dei social network.
Oh sì… Lì mi sarei voluta alzare e prenderlo per mano, trattarlo come un figlio adottivo e spiegargli di uscire e vivere, di correre per le strade, fare sesso, parlare con la voce alle persone, toccarle, litigarci, confrontarsi col mondo.
Ha detto di non sentirsi solo grazie a FaceBook.
Mi ha stretto l’anima e nella mia mente ho desiderato trasportarlo nel tempo, così l’ho immaginato nella bottega del Verrocchio a fianco di Leonardo da Vinci e di Botticelli, e poi a Parigi a guardare dipingere insieme Picasso e Breton, per finire in bellezza l’ho materializzato in un immaginario laboratorio insieme a perfetti sconosciuti con i quali condividere, per testare se il talento c’è davvero, e provare a “creare” qualcosa di nuovo, qualcosa che potrebbe diventare veramente artistico.
Io, assoluta sostenitrice dell’importanza della solitudine, in quei residui frammenti di tempo, ho visto materializzarsi la stessa come spettro insostenibile per alcuni, tra i quali anche il “Ragazzo Artista”.
E di nuovo avrei voluto alzarmi e adottarlo, e spiegargli che uno schermo diventa solitudine nel momento stesso in cui si ritiene permetta di non essere soli.
Anch’io ho un profilo su vari social network, quindi nulla contro queste forme di virtuale contatto inter-personale, ma non dimentichiamo che è virtuale, può essere programmato, gestito, sino ad arrivare alla manipolazione.
Se mi leggi e ti riconosci “Ragazzo Artista” mi permetto di consigliarti di uscire dallo schermo, organizza incontri, lavori di gruppo; vai in una qualsiasi piazza con alcune delle tue opere e ferma la gente, il primo passante che vedi e che non si spaventa, e chiedigli se gli piace quello che fai. Non diventerà tuo amico, o forse sì non si può mai dire, ma di certo sarà più sincero e obiettivo di chi ti è mero amico virtuale.
È stata una serata in cui il mio livello di attenzione era discretamente alto, e questo era dovuto ad alcune parole dette inizialmente dal cortese “Anfitrione Artista”.
L’acqua è formata da tante gocce, e noi siamo le gocce.
Amo passare inosservata, ho scelto di lavorare dietro le quinte e mi piace; se serve so parlare a un pubblico vasto, ma non avverto l’esigenza di protagonismo (ciò non significa che posso stare ad ascoltare esternazioni che non condivido senza dire nulla, e se devo tacere scalpito e di certo poi scrivo).
Sì, mi piaceva immaginarmi goccia, e la mia fantasia mi ha collocata nel bel mezzo dell’oceano in tempesta, con vento, onde immense, ma soprattutto in totale balia della fantastica, unica ed erotica energia della natura primordiale; perfettamente in linea con il mio poco domato spirito di animale primitivo.
In questo viaggio impossibile che stavo proiettando nella mia mente, la parte razionale, però faceva capolino, e scovando nella mia esperienza di vita mi ricordava che nessuno più di un artista o di un creativo è individualista, non per vanità, arroganza o altro, ma per esigenza, perché così deve essere.
Eravamo all’inizio, troppo presto per delle valutazioni, ho aspettato di avere più elementi, e dunque il mio livello di attenzione si è stabilizzato a un livello alto.
Chi ha iniziato sin da subito con una nota stonata è stato l’oratore che chiamerò “Psico Artista”.
Linguaggio verbale e gestuale da formazione PNL (Programmazione Neuro Linguistica) corso veloce, a voler essere sarcastica potrei aggiungere per corrispondenza.
Forse anche qualche “capatina” in corsi di recitazione, mah … chissà.
Nota stonata a cui, però, ha subito rimediato:
Un’opera non deve essere spiegata dal suo autore.
Perfettamente d’accordo. “Bravo ragazzo, sei perdonato”, ho pensato dentro di me.
Un’opera deve trasmettere sin da subito, deve catturare, deve suscitare emozioni positive o negative, deve colpire e parlare all’anima.
Non ho capito bene come da questa fortunata sortita sia arrivato alle “sconclusioni” che tutti siamo insoddisfatti e alla continua ricerca di qualcosa che non sappiamo individuare.
Avrete già capito che lui, il nostro “Psico Artista”, ha perfettamente individuato cosa tutti noi stiamo cercando, e ce lo stava, piano piano, sillaba dopo sillaba, spostamento di piede incrociato abbinato a testa inclinata, lieve sospiro accompagnato da movimento del capo verso il basso, rivelando.
In attesa della rivelazione, nella mia mente tutte le persone sedute davanti al tavolo/cattedra, me compresa, hanno subito una istantanea metamorfosi: eravamo tutte pecore, ma non semplici pecore con la mente della pecora, eravamo pecore a cui è stata praticata la lobotomia.
E forse l’inatteso stato ovino-lobotomizzato poteva rappresentare la soluzione, aderendo alla teoria che “la felicità sta nella non conoscenza”. Non so, devo riflettere, magari approfondirò in futuro.
“Psico Artista” con quelle premesse aveva creato in noi astanti un bisogno (o per lo meno ci stava provando), il bisogno di trovare la strada per uscire dallo stato di inettitudine e pochezza di anima che ci relegava nel mondo degli insoddisfatti.
E dato il nostro particolare stato ovino, “Psico Artista” diventava illuminante, fondamentale per il proseguo di ogni nostra vita, perché unica presenza intellettiva in grado di fornirci un’indicazione di vita indispensabile (ecco che arriva): siamo insoddisfatti perché non troviamo il nostro “io”.
Ero ancora nello stato metamorfico ovino, quando quel poco di cervello umano non lobotomizzato si è risvegliato con una domanda involontaria:
“A cosa ti riferisci? All’io, all’ego o al sé?”
alla quale è subito seguito un altro ancor più importante quesito:
“Ma, come ti permetti di parlare così a chi nemmeno conosci?”
(Nota: non dare mai per scontato che chi ti ascolta abbia conoscenze inferiori alle tue.)
Le mie domande sono state formulate solo col pensiero e non pronunciate, e intanto l’oratore “Psico Artista”, cadenzando le pause, gli sguardi, il movimento delle dita attorno al cartoncino che sin dall’inizio teneva tra le mani (escamotage spesso consigliato per gestire le insicurezze), proseguiva nell’illuminare l’assemblea ovina (ribadisco, me stessa compresa).
Ha disquisito sull’impossibilità dell’umana onnipotenza.
Mia caustica considerazione avuta nel corso della lenta metamorfosi dallo stato ovino allo stato umano: “di certo si sente investito dall’onniscienza”.
Ha elencato alcuni dei possibili modi in cui le persone vanno alla ricerca di quello che gli manca.
Alcuni viaggiano, altri cambiano partner, poi ci sono quelli che si trasformano, dunque ha parlato di chirurgia estetica, a quanto ho inteso ritiene si rivolgano le persone più insicure.
Riguardo l’argomento il mio parere è neutro, personalmente ricorrerei alla stessa solo per motivi di salute, ma se un uomo o una donna desidera plasmare chirurgicamente il proprio corpo, e questo non comporta danno a se stessi o ad altre persone, perché non dovrebbe farlo.
Per essere liberi è necessario lasciare libertà agli altri, il nostro parere non può diventare giudizio o veto sulle azioni altrui.
Ha parlato del materialismo in cui “sguazza” la nostra società, del consumismo, della comunicazione che spinge al consumismo.
Con un velato disprezzo o forse semplice distacco, probabilmente in questo caso la mia obiettività non è totale, ha detto (sintetizzo il concetto):
Qui parliamo di arte, quello è marketing.
Bene. Io non sono un’artista, lo sottolineiamo pure così è chiaro, ma nemmeno ho mai pensato di esserlo.
Sono una pubblicitaria, un tecnico creativo, amo il mio lavoro e vado fiera dei progetti che realizzo.
Che non toccano esclusivamente realtà commerciali, perché i piani di comunicazione e marketing servono a diverse figure.
Negli ultimi tempi hanno chiesto il mio intervento un paio di onlus per favorire la raccolta fondi, due scrittori e un musicista (ritengo gli ultimi si possano annoverare nella categoria artisti).
Questo negli ultimi tempi, a monte ci sono 20 anni di lavoro.
Lì ero come una voce muta fuori dal coro tra le voci mute dell’assemblea presente, e se in quel momento fossi intervenuta, il mio primitivo pragmatismo mi avrebbe potuto far dire solo una cosa (chi mi conosce bene può chiudere gli occhi e provare a indovinare, di certo ci riesce).
Ecco cosa avrei detto a “Psico Artista”:
“Ma salta xò dal figaro!”
(traduzione letterale: scendi dalla pianta di fico)
Se ciò fosse avvenuto, una volta sceso dalla pianta di fico, mi sarei avvicinata a “Psico Artista”, gli avrei tolto il cartoncino scaccia insicurezze che teneva tra le mani, e guardandolo negli occhi gli avrei con parole semplici, perché solo quelle servono per farsi capire, svelato alcune ovvie e consolidate realtà.
In primo luogo che fuori da quella sala dalle imposte chiuse c’è il mondo, fatto di persone tanto comuni quanto vere e uniche, persone di cui faccio parte, che alcuni giorni possono essere tristi o preoccupate per il presente e il futuro, ma ciò non significa essere infelici.
Ci sono persone che hanno sofferto profondamente e ripetutamente, e questo ha fatto sì che nel percorso del dolore siano riuscite a capirsi, amarsi e di riflesso capire e amare anche gli altri.
Ce ne sono altre che sono semplicemente serene, non sono molte, ma capita di incontrare persone che sembrano fucine di positività, che solo a starci vicino si assorbe, quasi fisiologicamente, tranquillità.
Per le persone che più difficilmente riescono a trovare la propria identità ci sono ottimi professionisti: psicologi, psichiatri, psico-analisti.
Nulla è più importante della cura e stabilità della psiche, in quanto la stessa può essere determinante per lo stato di salute fisica (in questo non c’è nessuna ironia).
Gli avrei pure svelato, qualora nessuno lo abbia ancora informato, che il consumismo non è un male oscuro sceso tra gli uomini, inviato non si sa bene da quale malevolo demone (tanto per non causare fraintendimenti, preciso: è un modo di dire, i demoni non esistono), ma è parte dell’evoluzione della storia economica della società, comprendendo usi e costumi.
Mi sarei permessa di consigliare di non disprezzare niente e nessuno, ce lo insegna la natura stessa: l’ape regina muore senza le api operaie.
E in particolare gli avrei “confidato” che, al metro economico, le arti non sono immuni.
Partiamo da quella che mi è più vicina, la settima arte, il successo di un film si conosce al botteghino; l’opera di un artista si misura con la quotazione economica; la bravura di uno scrittore dal numero di copie vendute.
Può non piacere, volendo si può dire che non è così, tutto è possibile, dipende dal punto di vista, dalla volontà o meno di affrontare il reale.
Rimane innegabile che un’opera deve piacere agli altri, a persone esterne, anche ai non artisti.
(Nota: opportuno sarebbe affrontare anche la distinzione tra opera, opera d’arte e manufatto; magari in altra occasione.)
Così il mio oceano, quello che avevo immaginato ascoltando “Anfitrione Artista”, si è di colpo prosciugato, mi vedevo ancora come goccia, ma una goccia in un bicchiere di plastica pieno nemmeno a metà di acqua ferma lì già da un po’ di tempo.
Ho fatto un piccolo balzo e sono uscita per immergermi nel mare della gente comune, ho abbandonato l’elite di cui non sento di far parte, perché non mi sento incompresa, perché non sono infelice e perché sono viva e goccia singola nel corpo e nella mente.
Ma, soprattutto perché soffrivo, l’animale primitivo che c’è in me scalpitava in quanto impossibilitato a esternare, soffriva per le emozioni di cui avevo sentito parlare, emozioni soffocate e plasmate (o manipolate) in modo tale da essere presentate meglio che una campagna multi-soggetto.
Così sono uscita, perché le emozioni preferisco viverle piuttosto che stare a sentire qualcuno che le ipotizza, e che presumibilmente ha vissuto meno di me, non per età, ma per esperienze.
Da tutto il ciò il titolo: la fragilità dell’ipocrisia.
La simpatica e dolce “Signora Artista” che è tutta naturale perché si piace così, senza nessuna alterazione, ma si tinge i capelli; che parla della vita, ma non si accorge della fertilità dei semi che il torsolo della mela protegge e racchiude in sé.
Il potenziale figlio adottivo “Ragazzo Artista”, che racconta a se stesso e agli altri che non c’è la solitudine perché abbiamo FaceBook.
“Psico Artista” che parla di cercare il proprio “io” tenendo stretto tra le mani un cartoncino, che disprezza il marketing, ma è pubblicato da una casa editrice che fa bandiera del proprio claim tanto da trasformarlo in pay-off (scelta coerente con le esigenze di mercato).
Il carismatico “Anfitrione Artista” che parla delle maschere che indossiamo dispensando complimenti sotto forma di pensieri annotati; che enuncia l’importanza dell’egoismo, sottolineando che non possiamo amare gli altri se non amiamo noi stessi, dimenticando di citare la fonte, ossia le sacre scritture.
Non ho parlato di “Manovale Artista”, ma c’era anche lui, che sostiene che le sue opere per essere capite e apprezzate devono essere spiegate da lui stesso. In caso di vendita di un’opera l’artista è compreso?
Fate attenzione, ipocrisia involontaria, ipocrisia umana del tutto accettabile e comprensibile, ma così fragile che ci vuole poco, davvero poco, per individuarla, romperla e farla cadere in tanti pezzi.
Il momento in cui l’ho vista sgretolarsi è stato quando ho fatto un respiro profondo (forse per le imposte chiuse), e mi sono guardata attorno e ho pensato al disprezzo esternato per il consumismo.
Io, “signora marketing” (per equità ho trovato un nome anche a me), ero lì con i miei jeans un po’ sdruciti, con al collo il mio ciondolo di vetro a forma di cuore e di colore rosso pagato 3 euro al mercatino di natale, il mio solito zaino che perennemente sostituisce la “borsetta”; mentre attorno a me c’erano persone dal look studiato, persone con accessori che costano più un fine settimana nella migliore delle beauty-farm, acconciature, tacchi alti, mocassini fatti a mano.
Sono “signora marketing”, ma non mi curo delle mode del momento, non amo fare shopping, mi vesto, ma non mi agghindo, e adoro quando qualcuno si complimenta per il bel bianco-grigio dei miei capelli.
Dunque, io, complice per scelta professionale dei mali oscuri dei nostri tempi, sebbene in incognito (pochi mi conoscevano), mi trovavo nel bel mezzo di un gruppo di persone (alcuni è doveroso e coerente escluderli, in primo luogo la mia amica) che disprezzavano le loro stesse vesti.
Eh sì … l’abito non fa il monaco, ma ci racconta molto.
Il mio lavoro implica osservare, scrutare, interpretare gestualità, logistiche, disposizione degli arredi, l’ho studiato e poi imparato un po’ per volta nel corso degli anni, ora è diventata una deformazione professionale.
Forse a causa di ciò ho notato tutto questo e ne sono rimasta profondamente colpita.
Non è la prima volta che scrivo riguardo a eventi a cui ho partecipato, è la prima volta che scrivo in quanto rimasta basita non positivamente.
Il vero nome che avrei dovuto darmi all’interno di questo scritto non è “signora marketing”, ma “signora comunicazione” e in tale veste consiglio di considerare sempre che comunicare bene è difficile, mentre è facile comunicare nel modo errato.
La comunicazione non lascia spazio alle interpretazioni, non ti dà la possibilità di spiegare, una campagna di comunicazione ha un ciak unico, e deve essere buona la prima.
Se non si riesce si può passare il tempo a raccontarsi di essere bravi, ma incompresi, ma serve a poco e non mi riferisco solo al lato economico.
Serve completezza e onestà totale in primo luogo nei confronti di se stessi, fatto questo si è a buon punto, anche per chiedersi e capire se il talento c’è, e quando c’è si vede.
Se qualcuno si è offeso mi dispiace, sottolineo che non ho riportato nessun nome o riferimento riconducibile alla serata, e preciso pure che sì sono rimasta basita, ma non ho interpretato come offesa l’atteggiamento che gli oratori hanno tenuto nei confronti del pubblico presente, si è trattato di una involontaria incompletezza.
A riguardo: io sono fosca bruni, precisare il mio nome e cognome è d’obbligo, in quanto mi assumo la responsabilità di quanto scrivo.